Dott.ssa Gloria Giuditta Piperno
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10-10-2023

IO CAPITANO, il film

Un′odissea contemporanea

Io capitano non è un documentario sui migranti, se lo fosse, non avrebbe lieto fine. È, invece, un atto artistico e insieme politico, che parla di noi, della nostra società. Parla a noi spettatori seduti al sicuro sulle poltrone di un cinema. Guardando questo film succede di cadere a più riprese nella tentazione di aderire alla narrazione e di augurarsi che tutto si risolva per il meglio. Come in una fiaba. È un augurio sacrosanto: vogliamo che i due ragazzini, Seydou e Moussa, cuginetti bellissimi musicisti sognatori, si salvino, vincano. Quando i due cugini in viaggio affrontano la camminata nel deserto, una donna cade, è sfinita e assetata, non sa rialzarsi, invoca aiuto. Seydou si ferma, in pieno deserto, mentre il gruppo procede nella sua marcia disperata, torna sui suoi passi, le offre da bere la conforta e cerca di farla rialzare. Noi spettatori, noi capitani del nostro film, quanto mai assetati di lieto fine, ci fermiamo con lui, offriamo acqua a quella donna senza nome, ma non smettiamo di considerare il tempo. Sappiamo che, in cambio del lieto fine, qualcuno deve (e può) essere sacrificato. Sono personaggi senza nome, i sacrificabili. Noi sappiamo, siamo disposti a sapere, che la donna senza nome che invoca aiuto accasciata nel deserto è spacciata. Ci dispiace, ma è stata scritta così. La sua storia, il suo destino, sono stati ideati proprio per questo: per fare da specchio al nostro pragmatismo. La realtà ( nel film) è che il gruppo con la sua guida si allontana e che indulgere a pietà può significare, per i nostri protagonisti, la morte. Il regista pone il ragazzo (e noi, gli spettatori, con lui) di fronte al brutto dilemma: comportarsi in modo etico, non sganciarsi dalla propria capacità empatica oppure strappare il filo, anestetizzare il cuore, tirare dritto e salvarsi? Un dubbio etico a cui ciascuno degli spettatori viene chiamato a rispondere, mentre se ne sta seduto sulla propria poltroncina. Ed è brutto, è terribile quanto terribilmente vero: tutti votiamo per il male minore. Il male minore è, in quella circostanza, che la donna sia dimenticata al più presto, che di lei non si sappia più e che, possibilmente, muoia fuori scena, lontano dai nostri occhi. Muoia (come tutte le vittime annegate, uccise da sevizie, morte di stenti o di tortura) fuori dal film. Il luogo dove si consumano gli orrori è tollerabile se risponde a questi requisiti: che sia non visibile, non raggiungibile dalle nostre coscienze. Pochi, credo, avranno rinunciato a sperare che il ragazzo desistesse dal proprio intento disperato. Ma se il film avesse narrato la storia di quella donna? Se avessimo seguito dallinizio il sogno di quella donna, della sua vita, della sua famiglia? Come ci saremmo sentiti alla fine? Questo è un film durissimo, perché mette ciascuno spettatore di fronte al proprio ruolo. Il ruolo di chi, da privilegiato, empatizza con i due protagonisti, si affeziona al loro destino, li riconosce come suoi simili e dunque li vuole salvi, li vuole fortunati. Felici pochi. Ma tutto ha il suo prezzo. E così il film ci offre il nostro happy end ma in cambio esige che noi, sulle nostre poltroncine, per oltre due ore, guardiamo molti esseri umani (non protagonisti) finire sommersi, non salvati, assumendocene, in quanto spettatori desiderosi di lieto fine, la responsabilità morale. Questo è un film non consolatorio, non catartico. Seydou, alla fine del film, urla allelicottero della capitaneria di porto: Io capitano e grida tutti vivi, nessuno morto, tutti sono salvi. E allora noi realizziamo che lui, lui, non noi, si è fermato a soccorrere quella donna senza speranza in mezzo al deserto, lui, non noi, ha rischiato la vita per una vita spacciata, lui, non noi, ha cercato il cugino perduto e non ha smesso di cercarlo e non si è arreso. Lui ha ritrovato il cugino e lui, non noi, ha portato in salvo tutti i viaggiatori del barcone. Il lieto fine è solo suo. Non nostro. Perché troppe volte nel corso del film, noi, al suo posto, avremmo seguito listinto più basso, il più viscerale. Seydou incarna qualcosa a cui noi possiamo solo aspirare. Se dobbiamo ringraziare Garrone, è di averci ricordato questa opzione. La possibilità di guardare oltre allo stretto nostro bene personale, e di guardare non più in alto ma più dentro, verso ciò che qualcuno ha chiamato Legge Morale, che risiede in noi, ma per nessuno è scontata. Una legge che va oltre il ragionevole istinto umano, e diventa mistica, e ridiventa umana e insegue e realizza, in questo film, ad un tempo due sogni: diventare rapper famosissimi, essere umani.